martedì 25 novembre 2003

Il capitalismo abbisogna di protezionismo?
In assenza di notizie importanti sul fronte macroeconomico, due sono state le parole-chiave che negli ultimi giorni hanno riempito le pagine dei giornali, economici e non: terrorismo e protezionismo.
Nel volgere di pochi giorni diversi attentati (Instanbul, Nassiriya) hanno rinnovato l'incubo terrorismo, che sui mercati finanziari si è tradotto in una (lieve) correzione delle Borse (S&P sempre sopra quota 1000), in una nuova caduta del dollaro (sopra 1,19 sull'euro e sulla soglia di 108 yen) e nel classico flight-to-quality che ha avvantaggiato i bond governativi (i futures sul bund decennale sono arrivati a 113,25 prima di ripiegare leggermente). Movimenti del tutto simili a quelli seguiti all'11 settembre 2001, seppure fortunatamente d'intensità molto più modesta.
Volevo però soffermarmi sul secondo dei termini citati, ovvero il protezionismo. Gli Stati Uniti, patria del capitalismo, ricorrono al protezionismo per difendersi dalla forza commerciale della Cina? Anche se la recente decisione dell'amministrazione Bush (imposizione di quote sulle importazioni di tessili dalla Cina) sembrerebbe dovere fare propendere per una risposta affermativa, a mio giudizio ci sono altri elementi da considerare:
1) gli USA hanno già quote su moltissimi prodotti con moltissimi Paesi (compresi quelli d'Europa), e questo non solo relativizza il problema, ma lo rende senz'altro meno ecclatante;
2) mentre annunciano queste misure contro la Cina, gli stessi USA si apprestano a rimuovere quelle sull'acciaio, adottate da circa un anno (per conquistarsi l'appoggio degli elettori della Pennsylvania);
3) infine, e soprattutto, Cina e Stati Uniti si stanno scoprendo partner strategici (e non solo nel commercio), con legami che li rendono ogni giorno sempre più interconnessi (si pensi, in particolare, all'inevitabile processo di delocalizzazione dell'attività produttiva occidentale), e quindi sempre meno propensi a scatenare fra loro una vera e propria guerra commerciale.
Quindi non si profila nessun ritorno al protezionismo di antica memoria (malgrado i timori paventati - forse ad arte - dallo stesso Alain Greenspan), né d'altro canto una crisi valutaria che deprima irreversibilmente il dollaro: provate ad immaginare chi sta comprando i dollari che negli ultimi 18 mesi sono stati venduti a favore di euro e yen? Indovinato, proprio le banche centrali asiatiche, compreso quella cinese, che poi acquistano Tbond (finanziando in tal modo il deficit statunitense) e poi restano semplicemente in attesa degli acquisti da parte dagli USA dei propri prodotti (in sostituzione di quelli europei!). E finchè l'Asia continuerà a finanziare il disavanzo statunitense, in attesa dell'avvio di meccanismi riequilibratori endogeni agli stessi States (primo fra tutti, un po’ di inflazione), il giocattolo potrà continuare a funzionare.






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